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L'HARAKIRI DELLE POLITICHE DEL LAVORO IN ITALIA

 


L’avvicinarsi della stagione estiva porta in dote due doni: i servizi sulle temperature "bollenti", reportage dal fronte in cui si esortano gli anziani a idratarsi e a non uscire nelle ore più calde, e le polemiche sui giovani che non vogliono lavorare. Due leitmotiv che precedono di poco la corsa agli ombrelloni e le grandi inchieste sulla movida. 

L'idea d'introdurre il salario minimo, la possibilità di discutere di un reddito universale, l'opportunità di aprire una riflessione pubblica sulla riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario sono temi all'ordine del giorno nell'agenda politica delle liberaldemocrazie. Se ne discute in Spagna, in Francia, in Inghilterra, in Portogallo, negli Stati Uniti. Da noi no, salvo la spinta non arrivi dal dibattito comunitario e – nella malaugurata ipotesi – sia comunque bilanciata da un predicozzo moralista sulle formidabili performance delle generazioni precedenti. A certe latitudini è perfino difficile interrogarsi sulla regolamentazione dello smart working, una modalità lavorativa che dovrebbe consentire di conciliare attività professionale e impegni di famiglia e che invece, troppo spesso, viene utilizzata per forzare la rigida (come no) regolamentazione normativa dell’orario di lavoro.

In questo quadro desolante, impazzano le polemiche sui sussidi a chi versa in condizioni di fragilità, quasi la povertà o lo stato di difficoltà debbano essere considerati non come un tema sociale, ma come una colpa addebitabile all'individuo, un peccato da espiare. Non ci si interroga, se non superficialmente, sul fenomeno sempre più consistente dell’abbandono del posto fisso, né si riflette su un modello economico in cui il concetto di “prelievo legato al patrimonio” sembra essere diventato un feticcio del secolo scorso. L’obbligo di convivenza, per stipendi da fame, si trasforma nella moda del “co-housing”, uno stile di vita tutto da esplorare. Una parodia glamour della vita reale. In questo affresco il dissenso, o anche solo il disappunto, diventa un fastidio. La parola d’ordine è alimentare la polemica per spingere una generazione di precari ad accettare lavori sottopagati in maniera arrendevole, operando sempre per qualcuno e non per qualcosa. 

È per contrastare questa spinta che andrebbe censurato duramente uno dei più grossi scandali del nostro sistema: il tirocinio non retribuito, in tutte le sue forme (la paga in buoni pasto o con un forfettario pluri-mensile rappresentano sempre un grande classico). Ne ha scritto, con merito, Silvia Sciorilli Borrelli su Domani, già corrispondente da Milano del Financial Times. Ha ricordato come, secondo i dati Ocse, i salari italiani sono diminuiti di quasi il 3% dal 1990 a oggi. Un'eccezione rispetto ai presunti competitors comunitari: Germania (+33,7%) e Francia (+31,1%) su tutte, ma anche la funestata Grecia (+30,5%) o la Lituania (+276%) vantano un percorso roseo rispetto al nostro. 

Abbiamo un problema di produzione che determina, in scala, una crisi dell’intero sistema-paese. Non riusciamo neppure a capire in quale campionato stiamo gareggiando. Rispetto a temi così grandi, rispetto a una riflessione complessiva che andrebbe fatta con urgenza sul mercato del lavoro, spendiamo tempo ed energie per raccontarci la favola del povero viziato. In giapponese c’è un termine preciso per rappresentare questo riflesso: harakiri. 


Giuseppe Lombardo


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