Al fondo della svolta c'è una duplice riflessione. La prima
riguarda, ovviamente, la pandemia: l'accelerazione tecnologica
imposta dal Covid ha stimolato l’inventiva dei manager, chiamati a
ricalibrare l’attività lavorativa dei dipendenti. Questi hanno
intravisto nella "remotizzazione del lavoro" l'opportunità
di ridurre i costi, superando il vincolo della rigidità dell’orario.
Un’arma a doppio taglio, poiché il rischio di erosione della sfera
di benessere, quella sfera che in teoria si vuole preservare, è
dietro l’angolo.
Tale indicazione sembra comunque condivisa dalla classe politica: la
circolare n. 2/2022 pubblicata dalla Funzione Pubblica
esorta implicitamente le PA a riconoscere il valore aggiunto dello
smart working. Come? In termini economici: più l'amministrazione
risparmia sui costi dell’energia, più i dipendenti possono
guadagnare. La riduzione dei costi energetici, infatti, rientra negli
obiettivi della Sezione "Valore pubblico, performance,
anticorruzione" del PIAO. Le risorse risparmiate dovrebbero
rientrare nella contrattazione integrativa. Si può discutere il
tema, la tempistica e la visione politica di fondo,
vista la coincidenza di questa svolta futurista con il caro-bollette
mentre in altri tempi il tema della sostenibilità ambientale veniva
a piè pari ignorato, ma tant’è.
La seconda riflessione riguarda il contesto internazionale in cui il
paese si muove: la "settimana corta", o una più generale
riduzione dell'orario lavorativo, è stata sperimentata in Belgio, in
Giappone, in Islanda, in Svezia, in Danimarca. Paesi culturalmente
distanti? Non esattamente: anche la Spagna si è mossa lungo questa
direttrice e il Portogallo di Costa ha annunciato l'intenzione di
emulare il vicino iberico. In tutti questi casi non si è notata una
riduzione in termini di produzione, anzi. Il vantaggio strategico per
le imprese è evidente. Ci si aspetterebbe, allora, che il tema diventi oggetto di confronto,
con la volontà d’innovare i modelli di lavoro pubblico. Questo,
purtroppo, non succede; semmai si registra la spinta contraria, la
necessità di ricondurre le novità introdotte con la pandemia a
prassi straordinarie, aspetti dell’organizzazione da metabolizzare
nel tempo.
Veniamo all’Inps. Le linee guida al lavoro agile rappresentano un’incompiuta. La decisione dell’Amministrazione di coinvolgere i sindacati in un confronto sul merito è stata apprezzabile; meno lodevole è stata la forzatura finale sui tempi, che non ha consentito di recepire importanti modifiche che la FP Cgil aveva posto al tavolo di confronto: penso alla discrezionalità delle sedi sulla fascia di contattabilità, che rischia di alimentare un equivoco di fondo e una confusione organizzativa tra telelavoro e smart-working. Una discrezionalità che, peraltro, si potrebbe amplificare a dismisura generando mostri, specie se ogni Direzione territoriale tenderà a interpretare le linee guida in maniera “creativa”.
Eppure l’art. 2 par. 2 di quelle indicazioni delineava chiaramente la strada: “l’Amministrazione agevola l’accesso al lavoro agile come strumento di conciliazione delle esigenze di benessere e flessibilità dei lavoratori con gli obiettivi di innovazione e miglioramento del servizio pubblico, nonché con le specifiche necessità tecniche delle attività”. È chiaro che questa direttrice non possa e non debba pregiudicare la fruizione dei servizi da parte degli utenti (art. 2 par. 4), ma fatte salve tali necessità non si comprendono resistenze che, a macchia di leopardo, rischiano di emergere. Reagire al cambiamento chiudendosi a riccio, con lo sguardo rivolto al passato, non è salutare. In un quadro in cui la produzione della sede è parametrata prodotto per prodotto, legare l’efficienza della macchina organizzativa alla mera presenza fisica del singolo è anacronistico.
Giuseppe Lombardo