I professionisti dello storytelling spiegano sempre che per disegnare il futuro occorre scommettere sull’innovazione. In un mondo del lavoro che si trasforma costantemente, e che muta i propri caratteri fondamentali sulla spinta del consumo globale, guidare un processo di trasformazione vuol dire avere una visione d’insieme, un obiettivo di lungo periodo e correre un rischio. Perché non si possono registrare miglioramenti apprezzabili o significativi senza la capacità critica di mettere in discussione modelli predefiniti.
In Spagna l’Esecutivo guidato da Pedro Sanchez ha lanciato un'idea: sperimentare la settimana lavorativa di 32 ore, 4 giorni a parità di salario, assicurandosi le critiche degli industriali e della stampa più conservatrice.
La proposta, però, non è apparsa peregrina e ha scatenato un vivace dibattito: l’emergenza epidemiologica vissuta in tutto il mondo ha dimostrato la necessità di aprire nuovi orizzonti nel campo del lavoro e non solo. In un felice spunto offerto da Giorgio Nisini alla newsletter Futura lo scorso maggio, lo scrittore spiegava come l’epidemia ha finito per darci “un diverso sentimento del tempo”, spingendoci a porre il tema di “come riorganizzarlo, come attraversarlo, come immaginarlo nel futuro, come riguardarlo con lo stato d’animo d’adesso”.
Lo abbiamo visto dal nostro piccolo angolo visuale: l’avvento dello smartworking ha spinto le parti datoriali a ripensare il paradigma professionale, investendo non tanto sulla quantità del tempo destinata all’attività lavorativa quanto sulla qualità, sull’utilità prodotta.
La pandemia, coi suoi mille rivoli, ha fatto emergere drammaticamente i nodi irrisolti nel paese: una scarsa alfabetizzazione digitale, una infrastruttura tecnologica precaria, una capacità di operare da remoto e di ripensare i processi estremamente fragile. Elementi di contesto che, se affrontati, potranno consentire di incidere sulle modalità con cui la prestazione lavorativa verrà eseguita, non sui macro-processi. Ed è in questo senso che la proposta iberica sembra alzare il livello del confronto. Intervistato da Fanpage Inigo Errejon, di Mas Pais, ha riassunto lo spirito dell'iniziativa: “La Spagna è uno dei Paesi in cui si lavorano più ore rispetto alla media europea. Ma non tra i più produttivi. Lavorare più ore non vuol dire lavorare meglio”. Questo il dato su cui si vorrebbe costruire la novità sistemica: una contrazione delle ore potrebbe innescare una riduzione della disoccupazione, stimolando peraltro il consumo interno. Più tempo libero a parità di salario vuol dire maggiori opportunità di spesa. È evidente che una simile prospettiva, per decollare, necessiti di un periodo di sperimentazione. Ed è per questa ragione che Madrid, in un primo momento, aveva delineato un percorso per tappe: il governo avrebbe dovuto stanziare una quota vicina ai 50 milioni di euro per coprire i maggiori costi sostenuti dalle aziende nella fase di avvio dell'iniziativa, per poi ridurre progressivamente l'impegno pubblico. Nel momento in cui scriviamo si aspettano ulteriori indicazioni sulle coperture della fase uno, indicazioni essenziali per poi ipotizzare un'entrata a regime della proposta.
È possibile immaginare uno scenario simile in Italia? Al momento francamente no, per due ragioni diverse. La prima è politica: i nuovi equilibri hanno portato alla nascita di un Esecutivo del Presidente, anche se non può essere ammesso esplicitamente. La sintesi di progetti alternativi che Mario Draghi è chiamato ad operare ha il sapore anestetizzante del percorso tecnico, che nella storia recente di questo paese è forse la scelta più politica che si potesse operare. Un simile cammino potrebbe essere compiuto, per paradosso, se fosse il primo ministro a intestarsi la battaglia, ma le prevedibili opposizioni di alcuni gruppi di interesse — ben rappresentanti anche dentro il Governo — rendono improbabile una simile iniziativa, di là dalla volontà tutta presunta di agire in questa direzione.La seconda ragione è temporale: l'orizzonte elettorale non è molto distante e l'impressione è che i convitati a Palazzo Chigi siano interessati a gestire le spese straordinarie previste, non a dare nuovi indirizzi al paese.
Eppure nel frangente storico che stiamo vivendo, anche alla luce del piano economico di rilancio che l'Europa sosterrà, sarebbe assolutamente essenziale immaginare un futuro diverso, un futuro che non sia irresponsabile o incosciente. Guardare al debito pubblico con preoccupazione vuol dire osservare con attenzione l'andamento del rapporto fra deficit e PIL. Se il denumeratore non cresce, il paese resta fermo al palo. Nella collezione di spunti che quotidianamente viene offerta alla stampa, questo dato di fatto è trascurato. Lanciare una piattaforma di discussione con le forze sociali per ripensare l'organizzazione del lavoro potrebbe essere un segnale forte. Purché sia un'occasione di dialogo e confronto, non il solito soliloquio condito da dichiarazioni d'intenti buone per tutte le stagioni.
In Spagna l’Esecutivo guidato da Pedro Sanchez ha lanciato un'idea: sperimentare la settimana lavorativa di 32 ore, 4 giorni a parità di salario, assicurandosi le critiche degli industriali e della stampa più conservatrice.
La proposta, però, non è apparsa peregrina e ha scatenato un vivace dibattito: l’emergenza epidemiologica vissuta in tutto il mondo ha dimostrato la necessità di aprire nuovi orizzonti nel campo del lavoro e non solo. In un felice spunto offerto da Giorgio Nisini alla newsletter Futura lo scorso maggio, lo scrittore spiegava come l’epidemia ha finito per darci “un diverso sentimento del tempo”, spingendoci a porre il tema di “come riorganizzarlo, come attraversarlo, come immaginarlo nel futuro, come riguardarlo con lo stato d’animo d’adesso”.
Lo abbiamo visto dal nostro piccolo angolo visuale: l’avvento dello smartworking ha spinto le parti datoriali a ripensare il paradigma professionale, investendo non tanto sulla quantità del tempo destinata all’attività lavorativa quanto sulla qualità, sull’utilità prodotta.
La pandemia, coi suoi mille rivoli, ha fatto emergere drammaticamente i nodi irrisolti nel paese: una scarsa alfabetizzazione digitale, una infrastruttura tecnologica precaria, una capacità di operare da remoto e di ripensare i processi estremamente fragile. Elementi di contesto che, se affrontati, potranno consentire di incidere sulle modalità con cui la prestazione lavorativa verrà eseguita, non sui macro-processi. Ed è in questo senso che la proposta iberica sembra alzare il livello del confronto. Intervistato da Fanpage Inigo Errejon, di Mas Pais, ha riassunto lo spirito dell'iniziativa: “La Spagna è uno dei Paesi in cui si lavorano più ore rispetto alla media europea. Ma non tra i più produttivi. Lavorare più ore non vuol dire lavorare meglio”. Questo il dato su cui si vorrebbe costruire la novità sistemica: una contrazione delle ore potrebbe innescare una riduzione della disoccupazione, stimolando peraltro il consumo interno. Più tempo libero a parità di salario vuol dire maggiori opportunità di spesa. È evidente che una simile prospettiva, per decollare, necessiti di un periodo di sperimentazione. Ed è per questa ragione che Madrid, in un primo momento, aveva delineato un percorso per tappe: il governo avrebbe dovuto stanziare una quota vicina ai 50 milioni di euro per coprire i maggiori costi sostenuti dalle aziende nella fase di avvio dell'iniziativa, per poi ridurre progressivamente l'impegno pubblico. Nel momento in cui scriviamo si aspettano ulteriori indicazioni sulle coperture della fase uno, indicazioni essenziali per poi ipotizzare un'entrata a regime della proposta.
È possibile immaginare uno scenario simile in Italia? Al momento francamente no, per due ragioni diverse. La prima è politica: i nuovi equilibri hanno portato alla nascita di un Esecutivo del Presidente, anche se non può essere ammesso esplicitamente. La sintesi di progetti alternativi che Mario Draghi è chiamato ad operare ha il sapore anestetizzante del percorso tecnico, che nella storia recente di questo paese è forse la scelta più politica che si potesse operare. Un simile cammino potrebbe essere compiuto, per paradosso, se fosse il primo ministro a intestarsi la battaglia, ma le prevedibili opposizioni di alcuni gruppi di interesse — ben rappresentanti anche dentro il Governo — rendono improbabile una simile iniziativa, di là dalla volontà tutta presunta di agire in questa direzione.La seconda ragione è temporale: l'orizzonte elettorale non è molto distante e l'impressione è che i convitati a Palazzo Chigi siano interessati a gestire le spese straordinarie previste, non a dare nuovi indirizzi al paese.
Eppure nel frangente storico che stiamo vivendo, anche alla luce del piano economico di rilancio che l'Europa sosterrà, sarebbe assolutamente essenziale immaginare un futuro diverso, un futuro che non sia irresponsabile o incosciente. Guardare al debito pubblico con preoccupazione vuol dire osservare con attenzione l'andamento del rapporto fra deficit e PIL. Se il denumeratore non cresce, il paese resta fermo al palo. Nella collezione di spunti che quotidianamente viene offerta alla stampa, questo dato di fatto è trascurato. Lanciare una piattaforma di discussione con le forze sociali per ripensare l'organizzazione del lavoro potrebbe essere un segnale forte. Purché sia un'occasione di dialogo e confronto, non il solito soliloquio condito da dichiarazioni d'intenti buone per tutte le stagioni.
di Giuseppe Lombardo