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PERCHÉ LO SCIOPERO È ORMAI FUORI MODA

Lo sciopero è uno strumento di lotta memorabile per i risultati che ha consentito di raggiungere nel corso del Novecento. In molti tra noi si augurano che possa tornare ad esserlo in futuro, ed è per questo che ci teniamo ben stretti l’art. 40 della Costituzione. Occorre però solo un minimo di pragmatismo per rendersi conto che purtroppo “è passato di moda”. Nel senso che appare inadeguato a perseguire risultati utili nel confronto con la cosiddetta “parte datoriale”. Viviamo in un contesto in cui si è abbandonata la teorizzazione del conflitto tra capitale e lavoro. Lo sciopero, dal punto di vista del diritto civile, è il diritto a sottrarsi alla prestazione lavorativa evitando le sanzioni conseguenti all’inadempimento del contratto, prima tra tutte quella del licenziamento. Non c’è dunque inadempimento, ma viene naturalmente meno il diritto alla controprestazione, alla retribuzione. Il diritto a non lavorare è stato originariamente pensato come strumento di pressione nelle rivendicazioni sindacali nella logica, e nella prospettiva, che il sistema capitalista si potesse rimodulare in termini di maggiore attenzione verso la componente del lavoro. E i risultati sono stati ottenuti. L’autunno caldo del 1969 mette “in cottura” lo Statuto dei lavoratori del 1970.  Con la caduta del muro di Berlino muta radicalmente lo scenario di riferimento. La globalizzazione dilaga, e in nome della necessità storica di competere sui mercati internazionali che presentano tutele del lavoro meno rafforzate rispetto a quelle presenti in Italia e in Europa, si prende atto che per la tenuta complessiva del sistema occorre ricalibrare il punto di equilibrio tra capitale e lavoro. Cambiano le regole del gioco, il potere pubblico, insieme ai lavoratori, deve cedere “responsabilmente” terreno all’iniziativa privata che chiede di essere supportata nella sfida globale di mercato. Il linguaggio segue il mutamento di contesto. Il conflitto tra capitale e lavoro sembra svanito. È l’impresa che regola il gioco, muovendo indifferentemente risorse di capitale e risorse umane. Al lavoratore viene esplicitamente richiesto di prendere atto delle leggi economiche, che vengono costantemente rappresentate come “leggi di natura”. Alle leggi di natura non si può resistere. É la natura, e non il processo storico, ad aver deciso che l’impresa è autorizzata a giocare liberamente sul mercato risorse di capitale e risorse umane. Il lavoratore è oggetto e non soggetto dell’attività economica.  

La nuova logica di pensiero è diventata ormai coscienza comune. La sinistra ha perso l'egemonia culturale di gramsciana memoria e si è rassegnata, nei diffusi livelli dirigenziali, a condividere o almeno ad adeguarsi alla lettura neocapitalista della realtà. 

È probabile che effettivamente non esistano altri percorsi attualmente praticabili. Pur nella consapevolezza della sostanziale inefficacia dello sciopero, rispetto ad esempio alle cene in casa Brunetta, forse si ritiene che il ricorso alla proclamazione dello sciopero sia comunque utile a mantenere alta la tensione ideale in quei pochi compagni attivi nella vita sindacale. Probabilmente si tratta di una scelta azzeccata dal punto di vista psicologico. Più volte mi è capitato di ascoltare espressioni di sincero orgoglio nelle dichiarazioni di adesione allo sciopero. Uno dei meccanismi psicologici più diffusi tra le più diverse culture del mondo, è quello di trovare gratificazione nella sofferenza individuale finalizzata ad un bene che si ritiene difficilmente raggiungibile.  Le religioni raccolgono in proposito un vasto campionario, con il complesso di colpa che guida il gioco. Ma l'associazione tra dolore e riscatto è diffusa in tante situazioni della vita quotidiana. 

Nel corso del tempo, e soprattutto a seguito del mutato scenario di politica internazionale, si sono succedute leggi (si pensi in particolare al settore dei pubblici servizi) ed interpretazioni giurisprudenziali che hanno peraltro progressivamente ridotto l’”offensività” dello sciopero all’interno della dinamica contrattuale. 

Dal punto di vista razionale è difficile credere che il sacrificio economico di una minoranza dei lavoratori possa ottenere risultati concreti sul piano della trattativa sindacale. Potrebbe rappresentare persino un effetto boomerang se i giornali del giorno dopo, invece di limitarsi ad un trafiletto in cui viene dato conto della scarsa adesione, titolassero a caratteri cubitali: il 96% dei lavoratori ha risposto NO. Ma abbiamo detto che la logica del conflitto è finita in soffitta, per tutti. 

L'unico risultato, come dicevo, è dunque nella ritenuta funzione di stimolo ideale per i più motivati. Se così fosse, dovremmo concludere che il diritto di sciopero viene in concreto utilizzato per finalità diverse da quelle proclamate. Per finalità senz'altro importantissime, ma che potrebbero essere facilmente raggiunte con altri mezzi, con l'ambizione di “emozionare” persino gli iscritti più sonnolenti e forse pure i non iscritti. Non possiamo più contare sulla rendita di posizione, confidando nella forza trainante del nostro passato glorioso. Viviamo in un clima psicologico per cui quel che conta è l'oggi. La memoria è fatica...alcuni ignorano persino il proprio numero di cellulare. In assenza di Memoria non si possono cogliere gli elementi essenziali del linguaggio, il discorso diventa incomprensibile, con relativa caduta dell’attenzione. E noi abbiamo bisogno di comunicare, anche a prescindere dalla Memoria. L'immaginario collettivo è costantemente alimentato da emozioni fresche di giornata, non più da idee solide e incrollabili. Viviamo in quella che Baumann ha definito società liquida. Molti dei nostri valori, non tutti, sono ancora lì, ma dobbiamo essere in grado di farli girare nel magma liquido. Come diceva Pietro Ingrao dobbiamo "stare nel gorgo". 

Per stare nel gorgo è essenziale la Comunicazione, entrare in relazione con l’altro, con il diverso da sé, sforzandosi di far emergere un minimo comun denominatore valoriale, e innovando soprattutto nel Linguaggio che è premessa per un aumento di visibilità, maggior partecipazione e conseguentemente capacità di mobilitazione.

Occorre elaborare forme nuove e alternative di lotta. Una prima proposta. Proviamo ad immaginare di sostenere una piattaforma contrattuale chiedendo ai lavoratori, in luogo del ricorso allo sciopero, l’offerta di un contributo corrispondente diciamo al 10% della retribuzione, da destinare ad investimenti socialmente utili. Naturalmente prevedendo una adeguata copertura mediatica che pubblicizzi l’iniziativa di lotta. Tutti verrebbero a conoscenza che il rifacimento di una strada dissestata, la costruzione di un asilo nido o di una casa di cura per anziani, è legata all’iniziativa dei lavoratori che chiedono visibilità ed attenzione per le loro rivendicazioni. Ritengo che a fronte di un contributo ridotto, ed invogliati dalla concreta possibilità di riconoscersi soggetti attivi sui mass media, la gran parte dei lavoratori offrirebbe la propria adesione. E tra l’altro, anche in presenza dell’irremovibilità della controparte datoriale, la giornata di lotta produrrebbe comunque un investimento utile per la collettività, con generoso ritorno di immagine per la CGIL.

Si potrebbe persino tornare ad una versione aggiornata dei cosiddetti scioperi di solidarietà, realizzando le “giornate di solidarietà” a sostegno di battaglie sul lavoro per le quali viene ritenuto essenziale il coinvolgimento di tutte le categorie di lavoratori. Si pensi ad esempio ai lavoratori della cosiddetta gig economy. Proviamo ad immaginare per semplicità di calcolo un contributo medio di 10 € ed a moltiplicarlo per i soli iscritti alla CGIL (5.000.000 circa): 50 milioni di Euro per una giornata di lotta! Non sono pochi!

di Massimo Bellisario



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