Sono stato assunto con il Concorso INPS per Consulenti nel 2019, citato dal Ministro Brunetta nell’articolo che lo stesso ha pubblicato sull’Huffington Post, e vorrei fare alcune considerazioni sui temi della riforma dei concorsi e più in generale sul tema del rapporto tra giovani e pubblico impiego.
Parto col dire quanto trovo di valido nelle opinioni del Ministro: condivido in parte alcune delle motivazioni del suo agire politico. In particolare concordo quando sostiene che l’Italia ha un valido sistema di istruzione, tra più avanzati ed accessibili al mondo, con un’offerta ampia che permette a tutti di seguire il percorso più adatto a sé stesso.
Condivido anche il principio di valorizzazione della formazione, credo nel life-long learning e nel miglioramento continuo. Apprezzo che nel Decreto Legge n. 44 del 2021 si voglia dare spazio al decentramento – non dimenticherò mai le trasferte a Roma per i concorsi, i compagni che giungevano con l’aereo dalla Sardegna, dalla Sicilia e dalla Puglia, arrivati alle prove già esausti e costretti a sostenere costi elevati per partecipare ad una selezione a carattere nazionale –, sostengo la digitalizzazione, lo snellimento delle procedure di selezione che la norma vuole introdurre.
C’è tuttavia un aspetto importante sul quale non mi trovo d’accordo: il tentativo, attraverso la pre-selezione per titoli, di trasformare la valorizzazione del merito in una selezione classista e privilegiata dei futuri dipendenti della Pubblica Amministrazione. Se infatti trovo giusto premiare, con punteggi e quindi posizioni in graduatorie più favorevoli, chi ha investito il proprio tempo nella formazione, non trovo però giusto precludere l’opportunità di concorrere per un posto di lavoro a chi non ha potuto investire in un percorso formativo certificato. Ci sono ad esempio tante persone che lavorano e studiano contemporaneamente, crescendo in competenze e conoscenze che non possono certificare con titoli accademici. La P.A. si priva di queste eccellenze se ammette esclusivamente una selezione basata sui titoli e sulle esperienze lavorative regolari: ironia della sorte, tutto ciò accade nel paese che ha 3,3 milioni di lavoratori in nero!
Brunetta ci definisce “spaventati”, e lo siamo perché nella sua visione del pubblico impiego sembra prevalere la precarizzazione del lavoro sulla stabilità. Il diritto alla sicurezza del posto di lavoro e il diritto al lavorare con retribuzioni consone viene così visto come premio e non come condizione necessaria al benessere del dipendente.
Forse è vero che i giovani hanno “cattivi maestri”, ma questi vanno ricercati proprio nei politici coevi del Ministro alla P.A., che sono vissuti in un’epoca di illusione di crescita semplicistica del Paese, in un’epoca magari anche di maggiore ottimismo verso il futuro. Anni durante i quali lo Stato interveniva per colmare le differenze occupazionali sul territorio e per ripianare le diseguaglianza, sovente anche creando evidenti distorsioni nel mercato del lavoro e dei beni, statalizzando imprese non competitive e creando monopoli favorevoli al mantenimento dei livelli occupazionali. Ma questa è storia recente, come l’enorme sforzo che ha dovuto compiere il nostro Presidente del Consiglio Mario Draghi negli anni novanta, nel Cda Imi e come presidente nel Comitato per le Privatizzazioni, per poter permettere al nostro Paese di essere competitivo ed entrare in Europa rispettandone i Trattati.
Questi cattivi maestri, ormai disillusi da due gravi recessioni, impoveriti e incattiviti, ci hanno trasmesso l’idea che lo Stato debba dare lavoro a tutti – come promesso da politici vicini al Ministro Brunetta a più riprese in precedenti governi – a prescindere dal livello di istruzione, dalle competenze o dalle esperienze lavorative. Alcuni dati: l’età media nella P.A. è di 50,7 anni, appena il 2,9% degli occupati sono under 30, e solo 4 dipendenti su 10 hanno una laurea. Se teniamo conto di tutti i lavori che hanno oggi accesso obbligatorio con la laurea, questi dati suggeriscono molto sul rapporto età-formazione. Oggi difatti abbassare l’età media dell’impiego pubblico è priorità che comporterebbe benefici su tutti i fronti.
Io ho 29 anni, una laurea magistrale e ho superato il concorso di cui sopra a 27 anni, facendo le preselettive, due scritti e un orale e senza avere alcun ulteriore titolo. Con l’attuale riforma non riuscirei a superare la preselettiva e non potrei dimostrare di meritarmi di lavorare nella P.A. Tuttavia nonostante i miei cattivi maestri, lavoro per una pubblica amministrazione, di cui sono molto orgoglioso, e contribuisco con le mie competenze, pronto ad imparare il possibile dai colleghi con più esperienza, diplomati o laureati che siano.
La mia generazione è impaurita non perché teme la competizione e la meritocrazia, ma perché sente che deve pagare gli errori del passato e farsi carico della crisi del 2009 e di quella attuale: ha paura di dover pagare enormi sacrifici per permettere ad altri di mantenere lo status quo, il proprio tenore di vita, il proprio lavoro per cui è mediamente meno qualificato di chi è più giovane. A noi invece viene chiesta più formazione e in cambio ci viene data maggiore precarietà.
Noi siamo cresciuti con una forte etica del lavoro, a causa del mondo che abbiamo trovato, un luogo dove la competizione è globale. Siamo molto consapevoli dell’importanza del ruolo che ricopriamo nel servire il Paese, nel privato o nel pubblico, per far in modo che i nostri figli trovino più benessere e opportunità di quante ne abbiamo trovate noi.
Non è pertanto accettabile utilizzare la meritocrazia e l’impegno in maniera retorica contro di noi, come fatto dal Ministro Brunetta questa volta, e spesso anche da altri politici: l’impegno, il lavoro, le competenze, l’abnegazione sono la nostra spada e il nostro scudo e con la con questa riforma si vuole cerca di piegare le nostre difese, costringerci alla rassegnazione.
Ma noi non lo accettiamo, siamo pronti a lottare, a pretendere di essere trattati per quanto valiamo e a impegnarci nel dimostrarlo.
di Antonio Frascogna