In questo primo mese di governo Draghi sono avvenute tante cose. In alcuni partiti vi è stata addirittura una rivoluzione radicale con cambio al timone, si torna a parlare di ius soli. Solo una questione resta innominabile: la situazione dei migranti economici.
È una categoria scomoda quella dei sans papiers; scomoda per tutti, anche per i nostri concittadini “benpensanti”, ma ancora più scomoda risulta essere la sua soluzione: la regolarizzazione. Albert Kraler, accademico della Danube University (Germania), lo ha ben sintetizzato in un recente convegno virtuale a cui la FP CGIL ha partecipato: secondo l’opinione pubblica, remunerare i “clandestini” con la regolarizzazione minerebbe la certezza e lo Stato di diritto, non sarebbe fiscalmente sostenibile e discriminerebbe quei migranti che tentano di entrare rispettando le regole. Sarebbe poi un segnale di attrazione maggiore per ulteriori migrazioni non controllate (il cosiddetto “pull-factor”, una teoria in circolazione dagli anni 70’).
In effetti, quando in Europa si è tentato di proporre una soluzione, le cose non sono andate bene. Era il 2008, e si revisionavano i cosiddetti Accordi di Dublino del 90’ (in Italia si giocavano i mondiali e Andreotti era Presidente del Consiglio), arrivando poi alla Dublin Regulation (2013/604/CE) sui rifugiati. E i Migranti economici? Il progetto della Commissione fu rispedito al mittente da tutti i Capi di Stato europei. Troppo scomodo da spiegare all’opinione pubblica. Eppure, in base alla Direttiva Rientri (Directive 2008/115/EC), la regolarizzazione può già essere presa in considerazione dalle autorità di Pubblica Sicurezza come alternativa al rimpatrio, quando non possibile. Del resto, la maestà dello Stato di diritto non ne uscirebbe più lesa rispetto a un condono edilizio o a una regolarizzazione delle cartelle esattoriali evase.
Ma cos’è un migrante “irregolare”?
La differenziazione rispetto ai migranti “regolari” è alquanto labile e di natura schiettamente legislativa. Se non possiedi i requisiti richiesti dalla legge (spesso contraddittori e non sistematici), sei un irregolare. “Clandestino” lo puoi anche diventare, se perdi il tuo lavoro e il tuo permesso era legato a quello. In numeri, il fenomeno riguarda circa 4.8 milioni di persone in tutta Europa, un numero in crescita tra il 2014 e il 2017 dopo un decennio di decrescita (tra il 2002 e il 2008 il loro numero era sceso da 5.3 milioni a 3.3 milioni). Questo perché, come la nostra storia nazionale ci insegna, la Patria la si lascia quando si ha fame; la crisi dei mutui americana del 2008, giunta in Europa solo nel 2011, ha tardato a far sentire i suoi effetti ma è arrivata ovunque. Prima del 2019, le “rimesse” contribuivano allo sviluppo dei paesi del “sud” per 85 miliardi; in Africa, questo corrispondeva al 60% del PIL (stime ONE). Ecco come si diventa un migrante economico.
Cosa significa essere un migrante economico?
La condizione di “irregolare” incide su vari livelli. Costringe ad accettare condizioni di lavoro illegali e indecorose. Genera stati d’ansia, depressione, e non risparmia la vita personale e l’accesso ai diritti. Gli “irregolari” non possono infatti denunciare un crimine, né avere accesso alle cure sanitarie, senza mettere a rischio la propria permanenza. Non possono neanche tornare a casa, dai familiari, perché poi come si ritorna? E se non si ritorna, come la si mantiene la famiglia? È così che molti di loro apprendono da lontano della morte dei loro cari, e non possono nemmeno recarsi a trascorrere il lutto con i loro.
Ma chi sono queste persone?
In Irlanda c’è chi si è preso la briga di studiare il fenomeno. Secondo la Migrants’ Right Center (Irlanda), su un campione di 1.000 persone irregolari, ben il 93% di esso ha un impiego; il 75% riporta inoltre di risiedere nel paese da più di 5 anni ed occupare il medesimo posto di lavoro negli ultimi 3. Si tratta per il 70% di individui ricompresi in un range anagrafico di 25-44 anni, a maggioranza femminile (59%, per 1/3 dalle Filippine). Tuttavia, il 26% di essi riceve una paga al di sotto del salario minimo e il 46% lavora più di 40 ore alla settimana.
Perché dunque ci si concentra su quella insostenibilità economica sopra evidenziata, se gran parte di essi lavora? Perché regolarizzarli significa dare accesso alle prestazioni sociali. In altre parole, le prestazioni INPS.
Il nostro Istituto rappresenta per tanti italiani un aiuto indispensabile. Ma quando ci si paragona al “clandestino”, quell’aiuto diviene privilegio, privilegio che molti vogliono conservare. Se i fondi sono pochi, come possiamo dividerli con chi non è italiano?
Eppure, la regolarizzazione permetterebbe un maggiore gettito fiscale al Paese ospitante, una spinta ai consumi interni e al prodotto interno (per effetto di un reddito superiore conseguibile da questi individui). Ma significherebbe anche un maggior controllo sul lavoro sottopagato (e dunque migliori condizioni per tutti). Proprio per questo la CGIL e il sindacato Europeo (come riportato da Ludovic Voet, ETUC) sono convinti della necessità di azioni in tal senso, come rafforzare l’ispettorato del lavoro, e lavorare a piattaforme sindacali contro il lavoro in nero.
In Portogallo qualcuno ci ha provato. Quando a marzo 2020 la pandemia è esplosa anche in Portogallo, il governo portoghese ha fatto una semplice constatazione: se queste persone hanno paura ad andare negli ospedali, anche se contagiosi continueranno a circolare senza effettuare tamponi; se non hanno accesso alla protezione sociale, il confinamento non potrà che costringerli alla fame. Come riportato da Claudia Pereira (Segretario di Stato per le politiche migratorie del Portogallo), la soluzione portoghese è stata l’emanazione di un decreto di regolarizzazione temporanea. Questo decreto ha permesso l’emissione di migliaia di codici fiscali e la proroga delle scadenze di documenti e permessi temporanei. Sono stati quindi resi accessibili servizi fondamentali tra cui quelli di sicurezza sociale, e i nostri omologhi hanno quindi potuto erogare prestazioni anche a questi soggetti, non più invisibili (almeno temporaneamente). L’impatto sociale è stato grande, ma in una pandemia globale nessuno è al sicuro finché tutti non sono al sicuro. Oggi quei migranti pagano le tasse e la Pereira ha assicurato la sostenibilità della misura.
E nel resto d’Europa? si stanno moltiplicano le iniziative, dal Belgio alla Svezia. Le stesse Nazioni Unite stanno vagliando vari schemi di regolarizzazione e sul punto è pendente una procedura di revisione legislativa eu (come riportato da Monica Alfaro, DG HOME EC). L’opinione diffusa è che le condizioni di accesso e residenza vadano cambiate, ridisegnandole su criteri trasparenti, stabili ma soprattutto realistici (Shanon Pfohman Caritas Europe), basati cioè su richieste documentali ragionevoli e su procedure online sicure ed economiche (Neil O’Boyle, MRCI Irlanda), che allarghino quanto più possibile la platea regolarizzabile.
E noi cosa ne pensiamo?
È una categoria scomoda quella dei sans papiers; scomoda per tutti, anche per i nostri concittadini “benpensanti”, ma ancora più scomoda risulta essere la sua soluzione: la regolarizzazione. Albert Kraler, accademico della Danube University (Germania), lo ha ben sintetizzato in un recente convegno virtuale a cui la FP CGIL ha partecipato: secondo l’opinione pubblica, remunerare i “clandestini” con la regolarizzazione minerebbe la certezza e lo Stato di diritto, non sarebbe fiscalmente sostenibile e discriminerebbe quei migranti che tentano di entrare rispettando le regole. Sarebbe poi un segnale di attrazione maggiore per ulteriori migrazioni non controllate (il cosiddetto “pull-factor”, una teoria in circolazione dagli anni 70’).
In effetti, quando in Europa si è tentato di proporre una soluzione, le cose non sono andate bene. Era il 2008, e si revisionavano i cosiddetti Accordi di Dublino del 90’ (in Italia si giocavano i mondiali e Andreotti era Presidente del Consiglio), arrivando poi alla Dublin Regulation (2013/604/CE) sui rifugiati. E i Migranti economici? Il progetto della Commissione fu rispedito al mittente da tutti i Capi di Stato europei. Troppo scomodo da spiegare all’opinione pubblica. Eppure, in base alla Direttiva Rientri (Directive 2008/115/EC), la regolarizzazione può già essere presa in considerazione dalle autorità di Pubblica Sicurezza come alternativa al rimpatrio, quando non possibile. Del resto, la maestà dello Stato di diritto non ne uscirebbe più lesa rispetto a un condono edilizio o a una regolarizzazione delle cartelle esattoriali evase.
Ma cos’è un migrante “irregolare”?
La differenziazione rispetto ai migranti “regolari” è alquanto labile e di natura schiettamente legislativa. Se non possiedi i requisiti richiesti dalla legge (spesso contraddittori e non sistematici), sei un irregolare. “Clandestino” lo puoi anche diventare, se perdi il tuo lavoro e il tuo permesso era legato a quello. In numeri, il fenomeno riguarda circa 4.8 milioni di persone in tutta Europa, un numero in crescita tra il 2014 e il 2017 dopo un decennio di decrescita (tra il 2002 e il 2008 il loro numero era sceso da 5.3 milioni a 3.3 milioni). Questo perché, come la nostra storia nazionale ci insegna, la Patria la si lascia quando si ha fame; la crisi dei mutui americana del 2008, giunta in Europa solo nel 2011, ha tardato a far sentire i suoi effetti ma è arrivata ovunque. Prima del 2019, le “rimesse” contribuivano allo sviluppo dei paesi del “sud” per 85 miliardi; in Africa, questo corrispondeva al 60% del PIL (stime ONE). Ecco come si diventa un migrante economico.
Cosa significa essere un migrante economico?
La condizione di “irregolare” incide su vari livelli. Costringe ad accettare condizioni di lavoro illegali e indecorose. Genera stati d’ansia, depressione, e non risparmia la vita personale e l’accesso ai diritti. Gli “irregolari” non possono infatti denunciare un crimine, né avere accesso alle cure sanitarie, senza mettere a rischio la propria permanenza. Non possono neanche tornare a casa, dai familiari, perché poi come si ritorna? E se non si ritorna, come la si mantiene la famiglia? È così che molti di loro apprendono da lontano della morte dei loro cari, e non possono nemmeno recarsi a trascorrere il lutto con i loro.
Ma chi sono queste persone?
In Irlanda c’è chi si è preso la briga di studiare il fenomeno. Secondo la Migrants’ Right Center (Irlanda), su un campione di 1.000 persone irregolari, ben il 93% di esso ha un impiego; il 75% riporta inoltre di risiedere nel paese da più di 5 anni ed occupare il medesimo posto di lavoro negli ultimi 3. Si tratta per il 70% di individui ricompresi in un range anagrafico di 25-44 anni, a maggioranza femminile (59%, per 1/3 dalle Filippine). Tuttavia, il 26% di essi riceve una paga al di sotto del salario minimo e il 46% lavora più di 40 ore alla settimana.
Perché dunque ci si concentra su quella insostenibilità economica sopra evidenziata, se gran parte di essi lavora? Perché regolarizzarli significa dare accesso alle prestazioni sociali. In altre parole, le prestazioni INPS.
Il nostro Istituto rappresenta per tanti italiani un aiuto indispensabile. Ma quando ci si paragona al “clandestino”, quell’aiuto diviene privilegio, privilegio che molti vogliono conservare. Se i fondi sono pochi, come possiamo dividerli con chi non è italiano?
Eppure, la regolarizzazione permetterebbe un maggiore gettito fiscale al Paese ospitante, una spinta ai consumi interni e al prodotto interno (per effetto di un reddito superiore conseguibile da questi individui). Ma significherebbe anche un maggior controllo sul lavoro sottopagato (e dunque migliori condizioni per tutti). Proprio per questo la CGIL e il sindacato Europeo (come riportato da Ludovic Voet, ETUC) sono convinti della necessità di azioni in tal senso, come rafforzare l’ispettorato del lavoro, e lavorare a piattaforme sindacali contro il lavoro in nero.
In Portogallo qualcuno ci ha provato. Quando a marzo 2020 la pandemia è esplosa anche in Portogallo, il governo portoghese ha fatto una semplice constatazione: se queste persone hanno paura ad andare negli ospedali, anche se contagiosi continueranno a circolare senza effettuare tamponi; se non hanno accesso alla protezione sociale, il confinamento non potrà che costringerli alla fame. Come riportato da Claudia Pereira (Segretario di Stato per le politiche migratorie del Portogallo), la soluzione portoghese è stata l’emanazione di un decreto di regolarizzazione temporanea. Questo decreto ha permesso l’emissione di migliaia di codici fiscali e la proroga delle scadenze di documenti e permessi temporanei. Sono stati quindi resi accessibili servizi fondamentali tra cui quelli di sicurezza sociale, e i nostri omologhi hanno quindi potuto erogare prestazioni anche a questi soggetti, non più invisibili (almeno temporaneamente). L’impatto sociale è stato grande, ma in una pandemia globale nessuno è al sicuro finché tutti non sono al sicuro. Oggi quei migranti pagano le tasse e la Pereira ha assicurato la sostenibilità della misura.
E nel resto d’Europa? si stanno moltiplicano le iniziative, dal Belgio alla Svezia. Le stesse Nazioni Unite stanno vagliando vari schemi di regolarizzazione e sul punto è pendente una procedura di revisione legislativa eu (come riportato da Monica Alfaro, DG HOME EC). L’opinione diffusa è che le condizioni di accesso e residenza vadano cambiate, ridisegnandole su criteri trasparenti, stabili ma soprattutto realistici (Shanon Pfohman Caritas Europe), basati cioè su richieste documentali ragionevoli e su procedure online sicure ed economiche (Neil O’Boyle, MRCI Irlanda), che allarghino quanto più possibile la platea regolarizzabile.
E noi cosa ne pensiamo?
di Andrea Mosca