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IN ASCOLTO DEI FUTURI COLLEGHI: I CONTATTI FP CGIL INPS SUL TERRITORIO

NUOVE ENERGIE E SCONTRI GENERAZIONALI

Siamo “neoassunti” INPS. 
Fra di noi ci sono tanti superstiti di altre generazioni, lavoratori e lavoratrici che per varie ragioni hanno scelto di rimettersi in gioco o hanno dovuto; ma, per lo più, abbiamo solo 30 anni. 
Non una gran vita. Ne abbiamo trascorso 19 nel sistema di istruzione nazionale, primario e secondario. A questi, sono seguiti almeno 2/3 anni nel precariato. Non il precariato del tempo determinato o del lavoro in somministrazione: quello degli Stages e delle Collaborazioni Coordinate e Continuative con “Professionisti” (o presunti tali). Ci siamo formati, ci siamo temprati, mentre Ministri del lavoro ci schernivano anziché occuparsi di noi. Ci consigliavano di stringere amicizie a calcetto anziché arricchire le nostre competenze; ci chiamavano “bamboccioni” e mettevano alla berlina quelli di noi che lasciavano il paese per cercare fortuna all’estero. 
Eravamo i “figli di mezzo” della Repubblica. 
Dietro ciascuno di noi c’erano famiglie, lavoratori e lavoratrici che hanno investito i loro risparmi su di noi. Questo ci ha reso la generazione più formata che questo Paese abbia mai avuto; ma siamo stati anche quella che ha dovuto accettare mansioni svilenti e inquadrature da CCN al ribasso. Eravamo sovra-qualificati, dicevano. E intanto quel precariato ci costava. In base ai dati Istat 2016, un laureato triennale residente a Roma o a Milano impiega più di 10 anni per colmare il gap reddituale che ha accumulato rispetto ai coetanei, a Viterbo 77 (Sole24Ore-Infodata, 2018, Andrea Gilotti); roba da chiedersi se valga veramente la pena di studiare.
Oggi per noi le cose sono diverse: siamo Dipendenti Pubblici in una Amministrazione chiave del sistema Italia. Abbiamo provato la gioia di vincere un concorso, siamo dall’altra parte della barricata. 
Poi sono arrivati i sindacati, e molti fra di noi li hanno guardati con freddezza. 
Inizialmente era diffidenza verso una realtà a cui non avevamo mai avuto accesso: Non eravamo lavoratori, noi; eravamo stagisti. Il sindacato era il privilegio dal nostro punto di vista. Spesso però la causa era la rabbia: “loro” non c’erano quando a noi servivano tutele, quelle vere. Perché dovremmo farne parte ora? E chi sarebbero i lavoratori del sindacato? Con loro, alcuni sentivano (e sentono) di non condividere niente, a partire dall’età. Noi saremo anche dall’altra parte della barricata, ma dietro ci siamo lasciati tanti, troppi, compagni; compagni di studi e di precariato, gente con cui abbiamo studiato e lavorato, gomito a gomito, per una paga spesso inferiore agli 850 euro mensili. Ci sentiamo più affini a loro che agli “altri”. Troppo spesso poi abbiamo visto piovere critiche sui nostri titoli di studio. Non l’abbiamo chiesto noi di essere assunti perché con la laurea, abbiamo partecipato a una selezione concorsuale pubblica: dovremmo chiedere scusa per avere studiato, se era previsto da un bando?
Oggi però le ragioni sono altre. A 2/3 anni dalla nostra assunzione, ci sembra di non essere nel radar dei sindacati. 
Noi però non facciamo nulla per entrarci. In fondo, siamo “neaossunti” di livello C mentre tanti colleghi, gente che ci ha insegnato il lavoro, è ferma da tanto, troppo tempo. Quali esigenze possiamo avere? Quali bisogni? Quali battaglie? Però il futuro siamo noi. Siamo noi quelli che dovranno tenere in piedi questo Istituto nei prossimi decenni. 
Così, alcuni fra noi hanno reagito con veemenza, con lettere di protesta; altri con l’assenza o il silenzio nelle assemblee, spettatori passivi di uno spettacolo ritualizzato. Chi potrebbe biasimarci?
Qualche domanda però potremmo farcela da noi: 
Se alcuni di noi si sentono messi da parte, dimenticati, perché non ci prendiamo questi spazi? Perché rimanere fuori, anziché partecipare e stimolare una discussione? Perché limitarsi a criticare? A cosa serve stilare una lettera di rimostranze… da indirizzare ai sindacati? Ci siamo dimenticati che la parte datoriale non sono loro? O forse pensiamo, anzi pretendiamo, di poterne influenzare la linea da fuori? 
Se vogliamo che il sindacato cambi, perché non farlo dall’interno? Chi non partecipa è un invisibile, e sarà sempre destinato ad esserlo. 
Noi questa cosa non possiamo più permettercela. Noi abbiamo passato anche troppi anni ad essere invisibili, a pensare a sopravvivere per paura di rappresaglie; quei tempi devono essere uno stimolo per partecipare all’attività sindacale. 
Questi anni saranno fondamentali per plasmare la PA di domani. Una amministrazione diversa, più efficiente ma anche più vivibile. Cosa aspettiamo a prendere la parola? Cosa aspettiamo, per esempio, ad immaginare e proporre politiche innovative sull’alternanza/lavoro, non più ancorate a schemi dello secolo scorso ma proiettate nel futuro, quel futuro che noi possiamo costruire? Se non aiutiamo noi le organizzazioni sindacali a sviluppare nuove piattaforme di contrattazione, chi?  
Siamo “neoassunti” INPS, ma cominciamo ad avere 2 anni e più di anzianità lavorativa. Ne chiediamo a gran voce gli emolumenti, come il TEP. Forse dovremmo iniziare a prenderci anche gli oneri, come l’onere di partecipare a quello che non ci piaceva.
di Andrea Mosca 

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