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DAL DIRITTO ALLO SCIOPERO ALLE NUOVE FORME DI LAVORO - COSA SUCCEDE IN EUROPA?

Sono passati mesi dall’ultimo sciopero nazionale, indetto per il 9 dicembre 2020. Uno sciopero che ha fatto discutere ed ha diviso, dentro e fuori l’impiego pubblico e le Organizzazioni sindacali stesse.
L’argomento è stato già affrontato su questo spazio dai compagni Di Michele, Belisario e Lombardo, e non bisogna aggiungere altro sulle ragioni, i perché e i per come di quell’evento oramai passato alle cronache. Frattanto, però, di questo strumento di lotta sindacale all’estero se ne parla.
Se ne è parlato ad esempio all’’European Public Service Union (EPSU), in un recente webinar presieduto dal Dott. Becker (Universiteit Gent). La voce dei lavoratori della Funzione Pubblica è stata rappresentata dei delegati CGIL Fabbrizio Spinetti e Francesco Quinti, rispettivamente rappresentanti Polizia di Stato, Forestale e Polizia Penitenziaria. La loro presenza non era certo casuale: il personale delle FF.OO. e AA. è il più colpito da queste limitazioni. Il caso dei “forestali”, a seguito della riforma del Dlgs. n. 177 del 2016, ne è un esempio e ha già fatto giurisprudenza tanto in casa, con sentenza della CorteCostituzionale, quanto all’estero. Un problema comune nel continente, come l’iniziativa del Sindacato di categoria (EUROMIL) testimonia. Ma al di fuori di questi casi specifici, perché se ne continua a parlare?
Perché questo diritto, da noi dato per scontato e talvolta criticato, a torto o a ragione, non è acquisito ovunque, non è per tutti e tutte. Una lacuna considerata talmente importante che l’EPSU ha recentemente incaricato tre atenei europei, la Carlos III di Madrid, l’Università di Amsterdam e l’Università di Gent, per svolgere uno studio sullo Stato dell’Arte continentale. Lo studio avrà per oggetto la quasi totalità degli Stati Membri dell’Unione ma anche Paesi terzi (come Armenia, Turchia, Montenegro, Serbia, Macedonia ed altri), un quadro complesso e variegato, un vero e proprio rompicapo dove spesso non si riesce a scorgere un minimo comune denominatore.
Prendiamo ad esempio l’Inghilterra, un paese del G7 con alti livelli salariari e una tradizione giuridica millenaria. Ebbene, a differenza di quanto accade da noi (Art. 40 della Costituzione), in quest’isola oramai extracomunitaria nessuna fonte di rango costituzionale prevede il diritto di sciopero. Ne consegue che qualsiasi azione in tal senso, formalmente, ricade nelle ipotesi di inadempienza contrattuale con susseguente responsabilità della parte debitrice (liability), situazione contrattuale che si concretizza non solo nella perdita della paga corrispondente alla giornata lavorativa, ma anche nel rischio di incorrere nel licenziamento. In realtà, la costituzione flessibile anglosassone prevede sempre eccezioni: già nel 1870 la giurisprudenza locale iniziò a tratteggiare la cosiddetta “Golden formula” in tema di sciopero, secondo la quale è ammissibile per il lavoratore sospendere l’adempimento delle proprie prestazioni qualora intercorra con la parte datoriale una “trade dispute”, ossia una vertenza “commerciale”. L’uso del vocabolo non deve destare sorpresa: si ricorderà certamente che fulcro delle teorie Marxiste, da subito diffuse in Inghilterra con la collaborazione di Friederich Engels (Tedesco, o meglio Prussiano, cofirmatario del Manifesto, ma anche proprietario di varie industrie tessili nel Regno Unito), era la determinazione del lavoro umano come merce (commodity) e non semplice fattore di produzione (input). Era dunque “logico” qualificare questo standard come “commerciale”, ma vi erano anche altre ragioni: agli occhi della classe dirigente inglese questo escamotage permetteva di de-politicizzare la lotta sindacale sin dal suo principio. Venne così definitivamente positivizzato dal parlamento con il Trade Disputes Act del 1906. Sebbene questa sterilizzazione del carattere politico dello sciopero possa sembrare a molti come una vera e propria alienazione, almeno quella legge ebbe il pregio di tutelare i lavoratori britannici impegnati in lotte sindacali. Tuttavia, nel 1980, l’Employment Act voluto dalla Thatcher limitò fortemente il ricorso alle lotte sindacali vietando espressamente le “secondary actions”. Si tratta di quegli scioperi di solidarietà nei confronti di lavoratori di un'altra azienda o perfino di un altro settore. Negli anni 70’ sono stati il pane quotidiano delle lotte sindacali e studentesche italiane; in Inghilterra non sono ammissibili, sicché si ha diritto a scioperare solo nei confronti del proprio datore di lavoro, limitando di fatto qualsiasi forma di organizzazione sindacale dei lavoratori su larga scala.
Basta prendere questo caso per comprendere quanto la situazione europea sia problematica. Eppure di fonti armonizzatrici ve ne sono. Il diritto allo sciopero è contenuto all’Art. 6 comma (4) della Carta Europea dei Diritti Sociali (fonte di Diritto UE); è previsto all’art. 11 della CEDU; è riconosciuto sotto l’alveo dei Diritti Economici e Sociali (ECOSOC) delle Nazioni Unite dall’art. 8 (1) (b) ICESCR; vi è inoltre esplicita giurisprudenza internazionale sul punto, come il caso Yapi Yol Sen v. Turchia della Corte EDU(ECtHR); infine, varie sono le fonti derivate a sviluppo dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Tuttavia, molti ordinamenti nazionali resistono “fieramente” a tali intrusioni “esterne”. Prendiamo ancora l’Inghilterra: nonostante la vasta giurisprudenza della ECtHR, anche specifica come il caso Wilson and Palmer v. UK, è sempre riuscita ad arginare ogni tentativo dei sindacati di cambiare il quadro normativo in tema di sciopero; da ultimo, nel caso RMT v. UK, intentato dai lavoratori della Fastline Ltd., è riuscita a mantenere inalterato lo status quo ante.
Ad oggi prevedono forti limitazioni al suddetto diritto, soprattutto nel settore dei Servizi Pubblici. Tali limitazioni a volte sono dovute dal silenzio della normativa di riferimento, come in Austria. Vi sono poi i casi in cui sebbene il diritto sia riconosciuto ai lavoratori del Settore Pubblico, questo venga comunque sottoposto a limitazioni indirette, con l’inserimento di misure di garanzia (Italia, Belgio, Francia). Sussistono ancora paesi dove è espressamente proibito, con limitazione dunque diretta, come in Germania e Danimarca.
In questo contesto, lo studio promosso da EPSU è certamente una prima pietra per coordinare le rivendicazioni sindacali europee del domani. Noi però non dobbiamo dimenticarci dell’importanza del diritto allo sciopero: esso è un diritto fondamentale dell’individuo inteso come lavoratore, così qualificato in vista all’appartenenza ad una “classe”, se non altro contrattuale, da cui consegue che esso realizza pienamente la sua funzione nelle azioni collettive ed intersettoriali. Da questo diritto discendono però anche doveri: quello di esercitarlo con responsabilità e consapevolezza, mantenendo integro ed intatto il suo valore morale affinché non si annacqui, soprattutto nell’opinione pubblica.
Nel frattempo, lo scorso aprile la Corte EDU ha preso atto della su citata sentenza 120 del 2018 della Corte Costituzionale, nonché della dichiarazione di acquiescenza presentata dal Governo Italiano riconoscendo che: sì, il Dlgs. n. 177 del 2016 ha leso il diritto allo sciopero di cui all’art. 11 della CEDU, con liquidazione alle spese di soccombenza. Per fortuna, anche quando da noi ci si scorda il valore di questo diritto, all’estero c’è chi sa rinfrescarci la memoria.
di Andrea Mosca

 



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