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NELL’INTERESSE DI CHI? CONTRATTAZIONE COLLETTIVA E SINDACATO

 

Infine è calato il sipario sul CCNI 2020/2021. Si trattava di un contratto molto atteso dai C1 classe 2019, perché è quello che ha esteso il TEP a questa nuova platea di dipendenti.


Nessun colpo di scena: Bastava leggere il CCNI del 2019 (firmato nel 2020) per non avere dubbi circa la fattibilità di questo obbiettivo, ma la lunga attesa ha evidentemente snervato i più.

Il TEP logora chi non lo ha, parafrasando una famosa espressione. Criticare le OO.SS. ove si ravvisi il loro immobilismo, la mancanza di propensione all’ascolto, la carenza di attenzione ai problemi di categorie di lavoratori è lecito e doveroso. Lasciarsi prendere dal panico invece è altra cosa. Panico che è giunto da più voci e su più piattaforme, con affermazioni dal tenore: se vuoi il TEP iscriviti; o vi piegate al sistema di tesseramento o non otterrete niente. Quasi una notizia di reato - attività estorsiva con l’aggravante del fenomeno intimidatorio. Una sparata grossa. 

Guardiamo ai fatti: TEP chiesto, TEP ottenuto. Per tutti, iscritti e non iscritti al sindacato. Magia? No, Contrattazione Collettiva. È una delle principali ragioni per le quali organizzarsi in Associazioni di Lavoratori è un’ottima idea. 


Ma quanto ottima? Nel nostro Paese siamo talmente assuefatti alle garanzie sul lavoro (a patto di trovarlo, un lavoro) che spesso ci dimentichiamo il ruolo e l’importanza dei CCNL/CCNI e delle negoziazioni sindacali. Tutto è acquisito, tutto è scontato; una logica del tutto e subito, trasversale a tutte le generazioni, dai più ai meno senior. Le cose però non stanno così. Nessun diritto è acquisito per sempre. Basta un viaggio in Nuova Guinea per rendersene conto, senza scomodare l’Afghanistan. Ecco perché il ruolo dell’attività sindacale è cruciale. Attenzione però: non è questione di monopoli, di privilegi, vassallaggi, baronaggio o chissà che altro, come alcuni paventano. È una questione di peso contrattuale 

Andiamo per gradi.

La Contrattazione Collettiva fornisce ai lavoratori un mezzo istituzionalizzato per rivendicare una giusta parte dei guadagni produttivi da loro creati. Ha dunque una rilevanza fondamentale in termini di interesse pubblico, assicurando condizioni di lavoro minime. Tale funzione è ancor più cruciale oggi, dove l’irrompere di modalità di impiego inedite, l’afflusso di lavoratori migranti o distaccati (detachées) e il dilatarsi di modalità di lavoro part time e interinali sta stravolgendo il mondo del lavoro e le sue macro-categorie. Introdotta in Italia dal 1948, è una fonte riconosciuta dalla Conferenza Internazionale del Lavoro (ILO) con la Convenzione 98 del 1949 (art. 4), Convenzione che introdusse il criterio della “sufficiente rappresentatività” delle sigle sindacali e datoriali firmanti (cfr. Raccomandazione 91 ILO 1951). 

Ovvero: un Sindacato, se vuole che il proprio CCNL sia applicato, ha bisogno di iscritti. Questo anche per una ragione pratica ed elementare: più persone rappresenti, più hai peso e puoi esigere (e pluribus, N.BRUUN, Extension of Collective Agreements: The Nordic Situation, pubblicato in S.HAYTER, J.VISSER, Collective Agreements: Extending Labour Protection, BIT, 2018). Altrimenti come riequilibri un rapporto evidentemente sbilanciato dalla parte Datoriale? Stante poi la mancata piena realizzazione dell’art. 39 della Costituzione, un Sindacato oggi agisce come centro associativo di aggregazione di interessi collettivi (ai sensi dell’art. 2 della Cost., e degli artt. 1723 e 1726 Cod. Civ.) di cui è solo rappresentante, non titolare.

L’efficacia di un Contratto Collettivo poi non è un fatto scontato o automatico: di regola, com’è noto, un contratto ha valore solo per le Parti che lo firmano (art. 1372 Cod. Civ.). Prima che la Contrattazione Collettiva fosse prevista e regolata dalla Legge, nel nostro Paese un Contratto Collettivo poteva essere validamente derogato con contratto individuale di lavoro, anche con modificazioni in malam partem (cfr. Cap. I, M.PERSIANI, Diritto Sindacale, XVI edizione, CEDAM 2016). Per questo motivo, in tutti gli ordinamenti giuslavoristi furono inseriti meccanismi di estensione degli accordi collettivi, a partire dai primi del 900 in poi. 

Cosa si intende per “estensione” in questo contesto? Si intende l’allargamento dell’efficacia per aumentarne la portata di tutela. Alla firma di un CCNL/CCNI, i suoi effetti si esplicano in capo a tutti i lavoratori del settore, e non solo di quello stabilimento, di quella unità produttiva o di quel settore. Si trattò di un passo avanti fondamentale, per varie ragioni: prevenire disparità di trattamento, proteggere l’efficacia e l’applicabilità delle disposizioni ivi contenute, evitare distorsioni concorrenziali sul fattore produttivo lavoro (“concurrence pourries” o “faule konkurrenz”, prendendo in prestito espressioni d’oltralpe). Ma non solo: ragione pratica a vantaggio della parte datoriale è anche quella di non creare pressioni sui lavoratori alla sindacalizzazione forzata. 

Cioè, il CCNL/CCNI non solo tutela anche chi ad una sigla sindacale non ha aderito, ma garantisce a quest’ultimi la libera scelta di non aderire mai a un sindacato: perché già hanno accesso al maggior beneficio ottenibile (la Contrattazione Collettiva). 

Il sistema non è certamente esente da aspetti critici, e il meccanismo di estensione non fa eccezione: molti lo accusano di limitare la libera attività d’impresa (la Stessa Commissione Europea, BCE e IMF subordinarono i propri piani di salvataggio finanziario alla Grecia alla sospensione/restrizione dei meccanismi di estensione), altri di gonfiare i salari verso l’alto a vantaggio dei sindacati (R.M. SOLOW, The Labour Market as a Social Institution, Oxford Blackwell, 1990), altri ancora di non tener conto dei reali interessi dei lavoratori, inficiando la decentralizzazione negoziale (come la stessa OECD ha ravvisato nelle proprie raccomandazioni nel 1994) e l’autonomia delle parti.

A questo punto occorre domandarsi: cosa accadrebbe se la Negoziazione Collettiva e il suo effetto estensivo, come oggi li conosciamo, sparissero? possiamo farne a meno? E se ci si organizzasse al di fuori delle sigle sindacali il risultato sarebbe necessariamente peggiore? La domanda è lecita, e astrattamente tutto è possibile. Ma occorre guardare i dati prima di lanciarsi in avventurose ipotesi. 


Un crescente e cospicuo numero di pubblicazioni economiche e sociologiche ha teorizzato una relazione di causalità tra l’azione sindacale nella negoziazione collettiva e l’abbattimento delle ineguaglianze, almeno in termini di correlazione. un’ipotesi parzialmente supportata dai dati OECD relativamente alle disparità salariali (OECD, Negotiating our way up: collective bargaining in a changing world of work, 2019). Ciò significa che quanto più I sindacati sono proattivi nella negoziazione dei contratti, tanto più si riscontra una diminuzione delle diseguaglianze, salariali e non. 


Potrebbe essere una semplice coincidenza: chi ci dice che un contratto negoziato in forma decentrata non possa perseguire gli stessi obbiettivi? Ce lo dice ad esempio un recente studio ILO comprendente 80 Paesi (tra cui 21 paesi dell’Europa Occidentale e 17 di quella orientale) che si è concentrato proprio sullo studio dei meccanismi estensivi e sulla copertura contrattuale (S.HAYTER, J.VISSER, Pour une plus large diffusion de la négociation collective: le role de l’extension, in Revue Internationale du Travail, n. 160, pp. 183-214, 2021). Differenziando fra paesi che ricorrono ad una Contrattazione Collettiva e paesi che preferiscono lasciare all’autonomia decentrata e non collettivizzata, è emerso che nei paesi del primo tipo il tasso di copertura contrattuale (applicabilità del contratto alla totalità dei lavoratori in un dato settore n.d.r.) è tendenzialmente superiore al 50% (eccezione per quattro paesi Africani – Sud Africa, Eswatini, Zambia e Zimbabwe –, Croazia e Macedonia del Nord), con picchi da 90% (Francia, Belgio e Austria); il caso Italiano, facente parte di questo gruppo, si attesta su un solido 70%. 

Ma cosa succede ai paesi che non agiscono secondo questa logica? Il tasso di copertura scende drasticamente ad una media del 10% (!), e raramente sale oltre il 35% (due soli i casi in cui si raggiungono il 40 e il 50 %, ovvero Cipro e Malta). 

Non sembra proprio un bell’affare: a rigore di logica, e alla luce di questi dati, alla domanda “se ci si organizzasse al di fuori delle sigle sindacali il risultato sarebbe necessariamente peggiore?” dovremmo rispondere: si. Perché l’effetto sarebbe quello di far crollare la copertura collettiva, nel nostro paese, almeno del 20% (prendendo il caso più roseo, quello maltese, e comparandolo con quello italiano) e questo significa minor peso contrattuale, minor efficacia e quindi minori risultati. O peggio, disparità. 

Come si diceva in apertura, nessun diritto è acquisito per sempre: è un fatto che il tasso di copertura media collettiva si sia sensibilmente ridotto in Europa nell’ultimo 30ennio (dal 68.5% al 59.5%, dati ICTWSS e ILOSTAT, presi in un range che va dal 1960 al 2018 S.HAYTER, J.VISSER), come è un fatto che tutti i sindacati Europei stanno attraversando una forte crisi di adesioni (lo dicono i dati EPSU ed ETUC, ma anche la Commissione Europea - CONSULTATION DOCUMENT C(2020) 83 final). Se le sigle sindacali non sapranno rinnovarsi, la crisi di adesioni potrebbe contribuire a ridurre questa percentuale, con tutte le conseguenze sopra esposte.  


Se insomma Atene piange, Sparta di certo non ride. Nel frattempo, Ministri della PA si propongono di intervenire pesantemente su questioni delicatissime, come sulla questione dello smart working. Ad oggi, tale prestazione andrebbe negoziata su base individuale, non collettiva; più precisamente, il CCNL ad oggi non si pronuncia sugli aspetti organizzativi ed operativi, demandandoli alle parti datoriali con stringenti limiti quantitativi (15% della forza lavoro, come noto). Il risultato è che ciascun lavoratore è solo quando inoltra domanda di adesione al lavoro agile. 

Sicuri sicuri che il TEP fosse l’unica cosa importante? 


di Andrea Mosca  

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