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IL GIOVANE VECCHIO

Un caffè come sai fare te, Alfonso, mi raccomando. Ricordo ancora come facevo lavorare io la mitica Gaggia, quella a vapore dico, che le macchine a pistone le hanno inventate dopo…
Buongiorno Ornello, sempre in gamba come un giovanotto! Sembra che ti sia fermato a 18 anni di età. Ma come fai a mantenerti sempre così in forma nel corpo e nello spirito? Siediti, che ti preparo un caffè che non hai mai bevuto in vita tua!
Ornello, quel vecchietto sempre sorridente e pronto alla battuta, era diventato ormai da tempo l’anima del quartiere in cui viveva da quando era nato.
Gli altri abitanti se lo ricordavano con i capelli bianchi, come se li avesse sempre avuti così.
Le sue giornate passavano sempre alla stessa maniera, metodiche e ripetitive, come se non avesse imparato a fare altro nella vita. Eppure ogni cosa che faceva, ogni persona che toccava, era come se fosse la prima volta. 
Usciva di casa baldanzoso, per come poteva esserlo un vecchio della sua età, a volte anche con un po’ di irriverenza, per così dire, adolescenziale. Scendeva da solo le scale, faceva un piccolo salto giunto all’ultimo gradino e, chissà perché, sfiorava con le mani il muro appena varcato il portone, come fosse un rituale scaramantico. Ricordava ancora gli stemmi e le decorazioni che c’erano una volta su quel palazzo degli anni ’30 e come fosse stato più volte ristrutturato e rimodernato e nonostante tutto mantenesse ancora quel sapore antico di vecchio edificio costruito nei primi lembi di campagna romana appena fuori le mura.
Passava sotto le finestre di una casa dove molti anni prima aveva vissuto una ragazza tedesca con cui aveva fantasticato un amore perenne e una vita insieme fatta di cose quotidiane e banali, magari, ma solide e rassicuranti. Un amore giovanile che era finito così come era iniziato, dopo il ritorno in Germania della ragazza. Che non aveva mai più vista o incontrata nel corso della sua esistenza passata così strana e solitaria.
Lo spiazzo davanti alla chiesa, ora ingombro di macchine, dove giocava a pallone con gli amici, era ancora lì. Una volta mica c’erano tutte queste diavolerie tecnologiche che servono solo a illudersi di stare con gli altri. Se volevi incontrare il mondo fuori dalla tua famiglia e da te stesso, bastava scendere in strada, fischiare sotto casa di un amico e ti ritrovavi a tirare calci ad un pallone mentre parlavi di ragazze, di sesso, di politica… a volte anche a litigare, ma come si faceva una volta. Litigavi con un amico magari per una sciocchezza, usavi poco le parole e venivi subito alle mani, ma poi a fare pace ci voleva niente. Uno sguardo imbarazzato, una smorfia del viso e poi un abbraccio profondo e vero che ti rimetteva in pace con il mondo. Gli amici erano tutto, perderne uno significava un po’ come morire. 
Pietro e Aldo li aveva persi, tanti anni fa, ma non perché avessero litigato, anzi. Erano scomparsi a un certo punto della sua vita e non sapeva perché. Si ricordava solo la sensazione che provava da allora, da quando erano scomparsi. Era come se fosse morto insieme a loro. 
E le notti passate a parlare, andare in giro alla ricerca di improbabili avventure e altrettanto improbabili divertimenti visto il periodo della sua giovinezza. Un periodo difficile, un periodo di guerra e di bombardamenti.
Ma tutto ormai era finito da tempo e a lui era rimasta solo quella insana abitudine di restare sveglio la notte, almeno fino alle prime ore del mattino, ad ascoltare la radio come faceva da giovane per ascoltare Radio Londra ed essere pronto alla fuga verso il rifugio, appena sentiva il rombo di un aereo.
Eppure la cosa che lo attraeva di più era quel bar sulla piazza dove si fermava a bere un caffè ogni mattina appena usciva da casa. Era un rito imprescindibile e che gli procurava un misto di piacere e di disagio a cui non sapeva dare un significato preciso. Sapeva solo che doveva esserci in quel bar, sempre alla stessa ora, come se non volesse mancare a un qualche tipo di appuntamento.
Bè Alfonso, è venuta l’ora di salutarci. Ho fatto il mio dovere anche oggi! Ormai è diventato come un lavoro per me omaggiarti della mia presenza in questo bar. Un caffè assicurato, una piacevole chiacchierata e senza nemmeno chiederti di pagarmi per i servizi resi! Mi stanno aspettando, ti devo lasciare e se Dio vuole, ci vediamo domani…
Dio vuole, Dio vuole Ornello, stai tranquillo! Sono gli uomini, solo gli uomini che possono creare problemi! Ti saluto, eterno adolescente, a domani!
Ornello uscì dal bar con un sentimento diverso dal solito. Era un misto di euforia e di tristezza a cui non sapeva dare una spiegazione. Forse erano state le ultime parole dette da Alfonso? Il riferimento a Dio, agli uomini? L’idea dell’inesorabile avvicinarsi della fine? O forse quell’”eterno adolescente” che l’aveva colpito al cuore in una maniera improvvisa e che ancora rimbombava nella sua mente?
Ma cosa poteva aver fatto tra la sua adolescenza e i momenti attualmente vissuti? Gli venne un attimo di angoscia. Anche sforzandosi non riusciva proprio a colmare quel vuoto temporale di oltre 70 anni. Cosa aveva fatto in quegli anni, cosa era stato? Perché non riusciva a visualizzare nemmeno un frammento della sua esistenza adulta?
Era forse nient’altro che un povero vecchio demente che tutti intorno a lui si sforzavano di trattare come una persona normale?
Quello che era certo è che si ritrovava a vagare nel mondo in quella maniera così incorporea eppure così materialmente presente in tutte le cose che lo circondavano. Si aggirava nei luoghi soliti del quartiere, quei luoghi che frequentava da oltre novant’anni, sempre gli stessi, come se non ne avesse mai conosciuti altri. 
Si muoveva come un fantasma, come una persona assente da decenni sulla scena sociale. Un fantasma che poteva materializzarsi all’improvviso, come una saetta rossa scagliata in piena notte, solo attraverso un racconto fatto da altri. Il vero racconto della sua vita.

di Claudio Moscogiuri

Ornello Leonardi, il più giovane componente del movimento partigiano “Bandiera Rossa”, su delazione di un infiltrato, venne prelevato nel bar dove lavorava a Roma, in piazza Santa Maria Ausiliatrice 36, dalla banda Koch il 12 marzo del ’44 e portato nelle prigioni di Via Tasso. Trucidato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo all’età di 18 anni, insieme ai suoi compagni di battaglia Antonio Spunticcia, Aldo Banzi e Pietro Primavera, zio della nostra collega Elisabetta, venne ritrovato e riconosciuto dai parenti solo qualche settimana dopo. I capelli erano diventati completamente bianchi a causa delle indicibili violenze subite.


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