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STORIA DEL LAVORO FEMMINILE IN ITALIA - PARTE I

L’articolo 4 della Costituzione italiana recita testualmente:
"La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società."
L’articolo 4 pone quindi l’accento sull’elemento “lavoro” considerandolo contemporaneamente sia un diritto che un dovere.
Il lavoro è inteso come “diritto fondamentale che lo Stato deve riconoscere” favorendo tutte le condizioni per realizzarlo attraverso le politiche occupazionali e limitando la disoccupazione, e come un “dovere morale” che ogni individuo dovrebbe compiere perché con il lavoro ogni cittadino afferma le proprie capacità, la propria personalità e contribuisce al progresso dell’intero Paese.
Seppure la Costituzione garantisca con uno specifico articolo (il n.37) gli stessi diritti e, a parità di lavoro, la stessa retribuzione rispetto all’uomo vorrei aprire, prendendo spunto dall’articolo 4, una riflessione su quanto sia stato tortuoso invece il cammino del lavoro per la donna in Italia. 

Anni 1946-1960
Il periodo che va dal secondo dopoguerra agli anni Sessanta sembra non comportare grossi cambiamenti rispetto al ventennio fascista per quel che riguarda il ruolo della famiglia e in particolare quello della donna. Nei primi anni del dopoguerra le donne costituiscono gran parte dei due milioni di disoccupati registrati nel 1947, soprattutto a causa della ristrutturazione dell'industria tessile e manifatturiera ad altissima composizione operaia femminile. 
Nel 1954 ci sono due milioni e mezzo di occupate in meno rispetto al dopoguerra e il 40% degli iscritti all'ufficio di collocamento sono donne. 
A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta le donne espulse dal manifatturiero tradizionale vengono riassorbite in quei settori dove la meccanizzazione dei processi produttivi permette la sostituzione della manodopera maschile qualificata; produzione di massa ed accentuazione della quantità rispetto alla qualità portano alla richiesta di una manodopera flessibile, mobile, dequalificata, caratteristiche queste che storicamente, purtroppo, venivano attribuite alla forza lavoro femminile. 
In questo periodo le donne arrivano in fabbrica soprattutto dalla campagna. 

Nelle fabbriche le donne oltre ad essere segregate nelle categorie e qualifiche più basse, nei reparti e nei settori "monosessuali" e private di ogni possibilità di avanzamento di carriera, fino agli anni Sessanta subiscono una forte discriminazione salariale: a parità di capacità lavorativa con gli uomini sono inquadrate nelle categorie inferiori con una riduzione salariale del 30%. Stesso lavoro, inquadramento e retribuzioni inferiori.
Dal 1958 al 1963 si registra comunque un relativo aumento dell'occupazione femminile anche in settori come quello del piccolo commercio dove prevalgono le figure delle coadiuvanti familiari e delle commesse, inoltre il numero delle studentesse negli istituti superiori e nelle università aumenta sensibilmente e si allarga la possibilità di sperimentare l'incontro libero con i coetanei dell'altro sesso, fuori dal controllo e dalla protezione della famiglia. 


Gli anni del “boom” e della recessione.
Il cosiddetto "boom economico" caratterizza la fase di capitalismo avanzato della società italiana che vede stabilizzarsi livelli di vita e di benessere precedentemente acquisiti.
L’aumento dei salari permette ad un maggior numero di donne di abbandonare ogni tipo di lavoro esterno e di dedicarsi esclusivamente alla propria casa. 
La nuova tecnologia consegna nelle mani della donna strumenti sempre più raffinati che servono ad affrancarla della fatica e a rendere sempre più efficace l'immagine di una casalinga appagata in cui identificarsi. 
Nella realtà comunque alcuni lavori, come fare il bucato, lucidare i pavimenti... diventano effettivamente meno faticosi, mentre altri, come la cura dei figli, il controllo della loro educazione e la responsabilità di tutti i servizi di cui la famiglia si deve fra carico, in stretto rapporto con le istituzioni statali inefficienti e complicate dell’epoca, ricadono ancora sulle spalle delle casalinghe rendendo la loro vita quotidiana carica di impegni faticosi e non riconosciuti. 
In questi anni le prestazioni della madre-casalinga costituiscono un lavoro vero e proprio, erogato però all'interno delle mura domestiche e senza un riconoscimento sociale ed economico. Infatti, sebbene il lavoro domestico sia indirettamente produttivo e socialmente utile, si radicalizza la divisione tra "l'uomo che produce e la donna che consuma". 
Il lavoro domestico non avendo un prodotto proprio, perde la possibilità di essere riconosciuto come produttivo ed essendo identificato solo con il consumo, viene negato come lavoro. La casalinga in questo periodo vive addirittura la sensazione di essere una privilegiata svolgendo funzioni tipiche delle donne del ceto medio, in un periodo in cui quelle della classe operaia sono ancora prevalentemente presenti sul mercato del lavoro.
Per le donne in realtà però, così come per i bambini e gli anziani, nasceva un nuovo motivo di inferiorità:  diventavano sempre più immobili e dipendenti. 
Dal 1964, con l'inizio di un periodo di recessione, le donne vengono espulse in massa dal mercato del lavoro, e la figura della casalinga, che svolge unicamente compiti domestici, risulta quindi poco realistica, mentre si diffondono tra le donne il lavoro a domicilio e fenomeni di sottoccupazione o di occupazione marginale e precaria.
Dopo il 1966 la domanda, soprattutto nel settore industriale, privilegia sempre più la manodopera maschile delle classi centrali di età, collocando i giovani, gli anziani e le donne in una condizione di marginalità, che se per i primi è transitoria, per le seconde diventa strutturale. Dalla prima metà degli anni Sessanta fino al 1972 si verifica una drastica contrazione dell'occupazione esplicita femminile nell'industria e in agricoltura.
Gli anni settanta e ottanta.
Dal 1950 al 1975 aumenta progressivamente il tasso di scolarizzazione femminile e di partecipazione delle donne ai processi formativi con conseguenze notevoli per quanto riguarda la diminuzione delle disparità tra i sessi ed atteggiamenti e comportamenti femminili in materia di lavoro. 
Le studentesse diventano circa la metà totale per tutti i livelli di istruzione, ed accade anche che negli anni Settanta la fecondità registra un vero e proprio crollo con sempre più donne che fanno un solo figlio, o nessuno. 
Dal 1966 al 1976 l'occupazione femminile terziaria cresce del 35% soprattutto nei servizi privati di vario genere e nella pubblica amministrazione, ciò si verifica non solo grazie all'incremento della scolarizzazione femminile ma anche perché assume una fisionomia definitiva la cosiddetta società dei servizi.
Negli anni Settanta ma soprattutto negli anni Ottanta la partecipazione femminile al lavoro, specie nelle professioni del terziario, aumenta sensibilmente e si amplia il ventaglio di possibilità per le giovani donne che appare sempre più definito che non per le loro madri.

di Michelangelo Cirmi

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